Categorie
Ecommerce Innovazione

La moda sostenibile, esiste davvero?

Qualche giorno fa sono capitata su un articolo dal titolo “See the Horrifying place where your old clothes go to die” pubblicato su Fast Company. L’immagine accompagnatoria colpisce anche i meno sensibili all’argomento, e la storia raccontata da Maxine Bedat non è tanto vicina all’idea che ognuno di noi si fa quando pensa di fare una buona azione donando i propri capi in beneficenza.

Siamo nella discarica di Kpone, in Ghana, tra rifiuti domestici e sacchetti di plastica si intravedono vestiti, scarpe e accessori, arrivano qui da tutto il mondo. Questa è la fine che fanno i nostri capi dopo che ce ne siamo sbarazzati, magari pensiamo di dargli una seconda vita, ma la verità è che non c’è abbastanza domanda per le enormi quantità di abbigliamento che abbandoniamo, così le nostre buone intenzioni si trasformano in rifiuti e le conseguenze sono devastanti.

Partiamo dalla domanda: “Ma perchè i nostri capi finiscono qui?” .

Kantamanto è uno dei più grandi mercati dell’usato in tutta l’Africa occidentale, e ciò che sta accadendo a causa della sovrapproduzione di abbigliamento (soprattutto di bassa qualità) è un vero e proprio problema globale. Con un inventario in diminuzione di abbigliamento di seconda mano di qualità e un inventario in crescita di indumenti usa e getta, i ghanesi sono costretti a fare esattamente ciò che siamo portati a credere che non succederà, nel momento in cui doniamo i nostri capi. 

Dopo migliaia di chilometri questi capi vengono gettati nella spazzatura, senza nemmeno intravedere la loro seconda vita. Inoltre, i sistemi di smaltimento in Ghana e in gran parte del mondo in via di sviluppo sono meno sviluppati rispetto agli Stati Uniti, il che si traduce in più inquinamento e impatto climatico, per non parlare dei costi di trasporto di tutti quei rifiuti.

Per ogni tre capi venduti a Kantamanto, due vengono cestinati, stiamo quindi dicendo che più della metà del nostro abbigliamento inviato in Ghana va in discarica. Tuttavia, solo il 25% circa dei rifiuti totali di Kantamanto viene inviato in discarica, un altro 15% viene raccolto da collezionisti privati ​​e informali che possono scaricarlo illegalmente nei corsi d’acqua, seppellirli sulle spiagge, bruciarlo in lotti aperti o semplicemente lasciarlo lungo il bordo della strada, così i paesi senza infrastrutture affogano nella nostra spazzatura.

Il racconto di Maxine (che potrete approfondire attraverso il suo libro dal titolo “Unraveled” disponibile qui), ci porta nelle montagne di rifiuti di Kpone, una descrizione intensa e ricca di dettagli sul percorso fatto, il fumo che si intravvede da molti km di distanza, un quarto della discarica bruciava e più ci si avvicinava, più sembrava di camminare sul set di “The Hunger Games”. 

Tra il cotone coltivato in India e rivenduto a New York e le centinaia di scarpe da ginnastica e ciabatte di ogni marchio e dimensione, Maxine continuava a chiedersi che senso avesse investire così tante risorse nella produzione di un capo, spedirlo dall’altra parte del mondo per essere venduto, indossarlo solo poche volte e poi spedirlo di nuovo dall’altra parte del mondo affinché finisca per diventare fumo tossico da riversare nell’atmosfera e nei polmoni di ognuno di noi. 

Ma che stiano bruciando o meno, i tessuti gettati in discarica sono sempre fonte di emissioni di gas serra, e basterebbe indossare un indumento due volte più a lungo per ridurre le emissioni derivanti dagli indumenti del 44%.

Insomma, la moda sostenibile esiste o no? Sicuramente possiamo parlare di un impatto più basso, ma sarebbe comunque difficile dare un valore numerico e certo al concetto di sostenibilità.

Il tema è abbastanza caldo, non è un caso la recente operazione di acquisto dell’azienda Depop da parte del gruppo Etsy, che dimostra come il mercato del second hand continua a crescere.

Su questa tendenza nasce un progetto che ho scoperto da pochissimo e che mi piacerebbe segnalare come esempio virtuoso che merita di essere condiviso. Elisabeth è una donna che con la nascita di sua figlia decide di intraprendere un’ulteriore sfida, ed oltre al suo ruolo di mamma diventa imprenditrice, una scelta coraggiosa da cui prende anche il nome del suo progetto, così nasce CORA.

Dal 2014 CORA happywear studia prodotti innovativi ed ecosostenibili, facendo dell’innovazione di prodotto il suo tratto distintivo.  L’obiettivo di CORA è di lavorare per ridurre i danni causati dall’industria tessile, selezionando solo partner precisi e materiali che proteggono la pelle dalle sostanze chimiche nocive.

Nel 2015 è il primo marchio in Europa a creare body per neonati in fibra di eucalipto, una fibra unica per le sue caratteristiche antibatteriche, morbide e termiche. Nel 2018 lascia l’innovativo body “four-way stretch” che cresce con il bambino e lo accompagna per due anni. Oggi CORA presenta un progetto rivoluzionario di economia circolare, primo e unico al mondo dedicato alle famiglie: CORAcircle.

CORAcircle è il primo progetto di noleggio di abbigliamento biologico per neonati da 0 a 24 mesi. Il servizio nasce dall’idea di aiutare le famiglie a organizzarsi al meglio per le esigenze del proprio bebè con una selezione preconfezionata di indumenti necessari (da maschio, femmina o neutri). Così viene data la possibilità di godere di abbigliamento ecosostenibile ad un prezzo accessibile, contribuendo alla salvaguardia del pianeta.

La nostra strada verso la sostenibilità dipende tanto dalle scelte che facciamo ogni giorno, ad esempio, quando dobbiamo rispondere alla domanda “Acquisto questa al posto di quella?”, e sappiamo bene che la cosa di gran lunga più sostenibile sarebbe non comprarla affatto, ecco perché il progetto di CORAcircle è un esempio da condividere, sostenere e provare!

Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo sui social!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *